«Ehi, manca ancora molto?»
L’ansimare di Paolo le fa compagnia da ormai una decina di minuti, da quando il sentiero ha aumentato la pendenza.
Daniela si volta. L’amico è ormai distanziato di una decina di metri e arranca con la schiena curva in avanti e tutto il peso appoggiato sui bastoni che dovrebbero alleviare la fatica dell’ascesa sulle sue articolazioni.
«No. Dovremmo esserci». Alza la testa e con lo sguardo percorre quello che rimane del sentiero prima della vetta. Il bosco si è interrotto come tagliato da una scure, lasciando spazio a un prato punteggiato di fiori bianchi e rosa. Vecchie case di pietra in rovina, poco distanti, sono l’unica testimonianza di una presenza umana in un remoto passato.
Daniela chiude gli occhi, godendosi il costante frinire dei grilli e il tepore dei raggi del sole sul viso. Dura poco.
Un’ombra la costringe a riaprire le palpebre. Nuvole grigie stanno valicando rapide la cresta della montagna.
«La prossima volta col cavolo che mi fido del tuo “tranquillo, è un sentiero che fanno anche i bambini”» dice Paolo con voce più stridula del solito per imitare la sua.
L’ha raggiunta, ma Daniela non riesce a sorridergli e a ribattere con ironia come farebbe di solito.
«Potrebbe piovere. Quella roba non mi piace».
Il suo migliore amico segue l’invito del lieve movimento della testa e guarda le nubi che ormai hanno quasi del tutto coperto l’azzurro del cielo.
«Meglio, torniamo indietro». Le volta la schiena e fa un passo in discesa quando un rombo di un tuono in lontananza lo blocca subito.
«Forse è meglio se ci rifugiamo in quelle case lassù» propone la ragazza, «com’è arrivato in fretta, passerà presto».
Accelerano il passo e arrivano a un centinaio di metri dal villaggio abbandonato quando rade gocce cominciano a scendere dal cielo.
«Speriamo che qualcuna di quelle case abbia ancora un tetto» mormora Daniela, concentrata sulla loro meta.
«Ehi, guarda qui!»
La voce eccitata di Paolo la riscuote dai suoi timori. È uscito dal sentiero e si è fermato a guardare qualcosa sul terreno. Il temporale è incombente, ma pochi secondi di distrazione non cambieranno le cose.
Si avvicina rapida e quando posa lo sguardo accanto ai piedi del suo amico, scuote la testa. «Non hai mai visto una tana?»
«Sì, ma questa è diversa dalle altre».
Impiega qualche secondo per assimilare le sue parole. Ha ragione.
Mancano le tracce delle zampe che avrebbero dovuto scavare, manca il classico cumulo di terra all’ingresso. Il cerchio poi è perfetto e troppo ampio per ospitare un piccolo animale come una marmotta o una volpe, sembra quasi un pozzo non terminato. Ci si può quasi saltare dentro.
«Io la tana del Bianconiglio me la sono sempre immaginata così» confessa Paolo. Si china verso l’apertura e tira un urlo, rialzandosi deluso. «Niente eco».
«Andiamo, o ci bagneremo sul serio». La pioggia comincia a punteggiare di toni più scuri i loro abiti e Daniela si gira per riprendere il cammino, ma un altro urlo di Paolo la obbliga a fermarsi. Un urlo che le ghiaccia il sangue nelle vene e la fa voltare di scatto.
«Che cazz…»
Lui non c’è più. A terra solo i suoi bastoni
«Paolo» grida correndo verso la tana. Una parte di terreno è franata proprio dove prima c’era il ragazzo. L’istinto viene dominato dalla razionalità e Daniela si sdraia sul prato umido e striscia verso il bordo. Quando fa sporgere la faccia sul buco viene investita da un odore di marcio e da un calore inatteso. Gli occhi non riescono a vedere nulla in quell’oscurità impenetrabile.
«Paolo» singhiozza, incurante della pioggia che ora sta cominciando a cadere copiosa.
«Sono… sono… vivo».
La voce sottile di colui che conosce da circa dieci anni è un balsamo rigenerante.
«Stai bene? Sei ferito?». Prova a infilare un braccio nell’oscurità, tastando le pareti di terra compatta.
«Più o meno… è stato un bel volo. Ho preso una culata».
«Vedi qualcosa? L’apertura?»
«No. Qui è tutto buio. Accendo la torcia del telefono».
Passa qualche secondo, per Daniela interminabile.
«Sono in una specie di grotta, l’apertura da cui sono caduto è poco più in alto, ma non riesco a raggiungerla neanche in punta di piedi».
«Ok, provo a cercare una corda. Magari nelle case qui sopra è rimasto qualcosa». Senza aspettare risposta, Daniela si alza e corre verso il gruppo di edifici diroccati. Ha la maglietta ormai fradicia e sporca di terra sul davanti, ma non sente freddo ancora con l’adrenalina a mille.
La prima casa non ha la porta, del tetto è rimasto solo il moncone di quella che era la trave portante, pezzi di losa ricoprono quello che doveva essere il pavimento. Nessun oggetto utile.
Con un sospiro Daniela si toglie i capelli appiccicati dalla faccia e passa alla seconda abitazione. È messa peggio della prima, perché la parete che dà sul sentiero è franata quasi completamente. Delle scritte rosse all’interno catalizzano la sua attenzione. Una in particolare, Achtung, la riporta immediatamente alla seconda guerra mondiale e all’invasione tedesca che hanno subito quelle valli piemontesi, pagando un altissimo tributo di vite.
«Cazzo!». Un fulmine, immediatamente seguito dal crac di un tuono, la fa gridare.
Si affretta verso la terza casa. Questa volta l’abitazione sembra quasi integra. Ha il tetto di lamiera e persino l’uscio di legno è in buone condizioni, ancora sui cardini. Spinge la porta con mano tremante e trovarsi all’asciutto le dà sollievo. Il vento sibila dall’apertura di quella che doveva essere un finestra e fa sbattere un pezzo di tessuto di una tenda ormai a brandelli. Con gli occhi che si abituano a poco a poco alla penombra, Daniela avanza al centro dell’unica stanza. In un angolo ci sono degli utensili e la ragazza si catapulta speranzosa sugli oggetti. Tra le mani si trova una zappa, un rastrello e una pala arrugginita. A terra una cintura e anche un tipo di coltello che non ha mai visto. Si allunga per afferrarlo e si stupisce di quanto sia pesante. La lama è lunga e molto grande: in parte è seghettata, mentre sulla cima torna a essere appuntita. Solo quando se lo passa dalla sinistra alla destra nota che il manico sembra impregnato di qualcosa di scuro che le sporca il palmo. Un brivido le fa gettare d’istinto l’arma nell’angolo dov’era nascosta.
Frustrata dalla ricerca infruttuosa, torna sul bordo dalla tana mentre il temporale sembra allontanarsi.
«Paolo!»
«Sì?»
«Non c’è nulla in quelle case. Qui il telefono non prende. Torno a valle e chiamo aiuto, ok?»
Il silenzio inaspettato dell’amico la sorprende.
«Paolo?»
«Sento un rumore».
«Come?»
«Una specie di lamento».
Daniela rivede la scritta Achtung sulla parete. Scrolla la testa.
«Sarà qualche animale. Io vado, così veniamo a tirarti fuori prima che venga notte».
«Ti prego, non andare. Si sta avvicinando. Qui c’è qualcosa, sembra…»
“Sangue” pensa Daniela.
«Sangue» dice Paolo.
«Devo andare, o rischi di passare la notte qui».
«Ti prego non lasciarmi da solo» la implora. Sembra che stia piangendo.
«Arriverò prima di quanto pensi».
Si alza e corre via, senza voltarsi. Le orecchie le fanno brutti scherzi, perché la voce di Paolo che urla non potrebbe arrivare sin lì.
Il terreno è scivoloso e nel punto più ripido non riesce a evitare di cadere. Si rialza a fatica e le lacrime scendono senza che se ne accorga. Tira fuori il telefono dalla tasca, lo schermo è venato e del campo non c’è traccia. Il temporale potrebbe aver fatto danni alla centralina.
Dopo un’ora arriva in paese e si catapulta nel primo bar aperto. Lo sguardo atterrito che le restituiscono gli avventori la stupisce, ma non può biasimarli: è sporca dalla testa ai piedi e completamente fradicia.
In poco tempo il soccorso alpino la raggiunge con dei vestiti di ricambio. Il tè caldo offerto dal barista la rigenera. Risalgono il bosco di buon passo. Daniela guarda fisso il movimento delle gambe dell’uomo che la precede cercando di non pensare a quel «Ti prego non lasciarmi da solo» che le martella la testa da quando ha iniziato la salita.
«Ci siamo!» grida, quando vede le case poco sopra di loro. Il sole è tornato, anche se ormai è pomeriggio inoltrato e non scalda più come la prima volta che si era fermata in quel punto.
Senza attendere gli altri si avvicina a grandi passi nel punto dove Paolo è scivolato.
«Non è possibile».
La tana del Bianconiglio non c’è. Un piccolo cerchio di terra smossa e i bastoni dell’amico le confermano che non può essersi sbagliata.
«No, no, no» mormora come in una litania.
Si inginocchia e comincia a scavare a mani nude, spezzandosi le unghie per la foga.
Qualcuno la prende per un braccio e la forza ad alzarsi. Ci vogliono due persone per bloccare il tentativo di divincolarsi.
«Era qui, era qui!».
«Ahhhh… Porca troia!» Una voce più lontana penetra la confusione della sua mente. Proviene dalle case.
Approfitta del momento di distrazione di chi la tiene e scappa verso il piccolo gruppo di edifici.
L’uomo con la divisa rossa esce barcollando dalla terza abitazione, quella con la porta, e si piega per vomitare.
Daniela spalanca il battente e Paolo la guarda con occhi sbarrati, ormai privi di vita. La bocca fissata in un urlo muto e definitivo. La testa è impalata sul manico del coltello seghettato piantato al centro del petto.
Qualcuno la prende di peso, ma ormai Daniela non fa più resistenza.
«Ti prego, non lasciarmi da solo» sussurra. L’unica frase che riesce a dire prima di sprofondare nella follia.
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