Nella puntata precedente abbiamo toccato con mano lo stato della professione (non in grande salute) partendo dai dati e fornito il primo consiglio per chi ha intenzione di intraprendere questo mestiere.
Oggi smontiamo uno stereotipo. L‘idea romantica del giornalista che spesso anche i più giovani hanno è quella del reporter d’inchiesta che fa crollare il governo, dell’inviato speciale, di colui che prende appunti taccuino alla mano e poi ha tutto il tempo necessario per realizzare l’articolo. Queste figure per fortuna esistono ancora, ma non sono la stragrande maggioranza. Un aspirante giornalista deve tenerlo a mente: il suo ruolo all’interno di una redazione potrebbe essere anche quello del deskista, ossia il rielaboratore dei comunicati stampa ritenuti degni di pubblicazione o dei pezzi altrui.
In più, come diceva il collega Nicola Capuzzo in uno dei commenti alla prima puntata di questa rubrica, non basta avere la passione della scrittura per diventare un bravo giornalista e spesso nei curriculum di aspiranti tirocinanti si legge solo questo. Invece occorre una certa attitudine al non accontentarsi a ciò che viene raccontato in prima battuta, al fare domande, a essere curioso, all’approfondimento, ma anche alla cura del rapporto con le fonti che sono preziosissime. Perché il giornalista è colui che scrive notizie (sul processo di notiziabilità magari facciamo un approfondimento a parte, se lo ritenete opportuno, scrivetemelo nei commenti) e per trovare una notizia, ma anche capire qual è LA notizia all’interno di un convegno, o una conferenza, per esempio, è ciò che differenzia un giornalista dal “resto del mondo”.
Tornando all’oggi, purtroppo, c’è un fattore che ha cambiato parecchio il lavoro del giornalista a meno che non si lavori per un mensile o un settimanale: il fattore tempo reale.
Ritmi di lavoro
Da un lato il lavoro è cambiato nei mezzi (avremo modo di parlare di strumenti, intelligenza artificiale compresa, con cui il giornalista può aiutarsi senza che si possa gridare a “ci rubano la professione”) e nel ritmo con cui si devono produrre articoli nella stragrande maggioranza dei casi.
Una volta c’erano solo i giornali cartacei. Uscivano al mattino (alcuni avevano l’edizione pomeridiana, per la verità, come Il Corriere Mercantile a Genova) e quindi si aveva una scadenza più o meno fissa per la chiusura del pezzo.
Oggi, con Internet, non è più così. Siamo in un costante tempo reale.
Anche per chi lavora in tv, soprattutto in emittenti locali, un servizio al giorno non è più la norma, inoltre anche le tv stesse hanno i siti web da aggiornare con la stessa forza lavoro. A meno che non si collabori in esclusiva per un mensile o un settimanale regolarmente assunti, la quotidianità è spesso fatta di un tourbillon di notizie da scrivere con, purtroppo, il tempo come spada di Damocle.
Nell’epoca di internet e dei social soprattutto nella cronaca chi esce prima vince, per cui il giornalista, oggi, soprattutto se lavora per una testata generalista (per le agenzie di stampa il discorso è sempre stato così), deve avere una rapidità di esecuzione notevole nel trasmettere la notizia. L’ho imparato lavorando per Matteo Rainisio, che è stato uno dei primi editori nativi digitali. C’è poi un discorso legato al come si esce (il titolo, spesso, è tutto, ma anche il seo) e anche di questo parleremo nelle prossime puntate.
Attenzione, però, la fretta è spesso cattiva consigliera e il voler uscire a tutti i costi prima di avere tutte le verifiche del caso è uno dei fattori di autosabotaggio dei giornalisti stessi. Perché occorre tanto tempo per costruire la propria credibilità, mentre basta un errore per far crollare la fiducia dei lettori in un’epoca in cui è già ai minimi storici.
Oggi ci sono collaboratori di varie testate generaliste che coprono anche tre o quattro conferenze stampa al giorno, se non di più. Fabrizio Cerignale docet.
Le competenze tecniche ormai necessarie
Il giornalista oggi deve essere dunque veloce, se si occupa soprattutto di cronaca, ma anche fotografo, a volte videomaker e pure esperto di social network se non creator. Chi lavora per siti di informazione locale, dove tutti fanno tutto, deve avere queste competenze nel proprio bagaglio. Oggi per esempio per ottenere attenzione su Facebook non basta più la condivisione del link perché l’algoritmo privilegia i contenuti che fanno restare il lettore dentro il social e così via all’utilizzo di grafiche Canva che contengono foto e titolo della notizia o comunque una caption accattivante nella speranza di suscitare interesse. Instagram invece ora privilegia i reel e comunque le storie, per cui sta cambiando anche il modo di stare sui social delle testate giornalistiche. TikTok è ancora terra quasi inesplorata nelle sue potenzialità (sugli account delle testate si riproducono brevi frame video con il titolo della notizia identici a quelli di Instagram). Non tutti gli editori possono permettersi un social media manager, così occorre che il giornalista sia avvezzo anche a questi strumenti (il fatto che non ci sia un adeguato riconoscimento per queste ulteriori competenze a livello economico è un altro discorso).
Non pensate che la questione riguardi solo le piccole testate. Per esempio anche chi collabora con i grandi giornali a volte non ha il supporto del fotografo e dunque deve arrangiarsi. Non è questo il posto per fare una critica all’involuzione dell’editoria da questo punto di vista, mi limito soltanto a riportare fatti ed esperienze personali.
E pensare che fino a poco tempo fa molti giornalisti del “cartaceo” vivevano la parte web della propria testata come una scocciatura o qualcosa di avulso dal resto del lavoro. E soprattutto gli editori in generale sfruttano poco le possibilità enormi che fornisce la multimedialità di Internet. Ricordo quello mi aveva raccontato Federica Seneghini quando le avevo fatto i complimenti per il suo reportage sulle Svalbard (davvero multimediale) per il Corriere della Sera che aveva avuto un successo pazzesco in termini di letture.
“Per realizzarlo ci abbiamo messo un mese. I nostri pezzi online di solito sono fatti in 20 minuti”.
Perché a differenza di ciò che si pensa, le persone hanno comunque sete di informazioni, di storie interessanti, cambiano solo i mezzi di fruizione. Tutto questo implica una riflessione che mi riservo per un’altra puntata della rubrica.
A giudicare dagli ultimi dati del 2024 sulla vendita delle copie che allego qui sotto, editori e giornalisti abituati solo al cartaceo dovranno imparare in fretta a modificare le loro convinzioni.

Come imparare?
Dove si impara tutto questo? Torniamo all’annosa questione della pratica e dell’accesso alla professione. Sulla formazione dei giornalisti già iscritti all’Ordine magari ci faccio un articolo ad hoc.
Non esiste un corso di laurea che consente all’aspirante giornalista di ottenere in automatico l’agognato tesserino da pubblicista o da professionista per poter esercitare il mestiere senza essere abusivo. Esistono corsi di laurea che danno un’infarinatura delle competenze “culturali” che dovrebbero essere la base di ogni giornalista: diritto, storia, economia più qualche materia specifica come teoria e tecnica del linguaggio giornalistico, multimedialità eccetera. Qui, per fare un esempio, le materie del corso di laurea magistrale in Informazione ed editoria all’Università degli Studi di Genova. Se c’è qualcuno che ha fatto questi studi e vuole raccontarmi la sua esperienza la porta è apertissima nei commenti. Arricchiamo questo monologo con testimonianze che riporterò anche nelle prossime puntate.
Una volta funzionava così: si aspirava a venire assunti come praticante in un giornale dove erano i colleghi più anziani a istruirti al mestiere. Il praticante poi poteva accedere all’esame di Stato per diventare professionista e proseguire la carriera da assunto. Oggi sono pochissimi a fare questo percorso, i giornali non assumono quasi più praticanti tanto che io stessa ho potuto accedere all’esame di Stato nel 2012 come praticante d’ufficio in quanto freelance con partita iva che ha dimostrato, dichiarazione dei redditi alla mano, di “vivere di giornalismo”.
Il praticantato oggi viene garantito dalle scuole di giornalismo riconosciute dal consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, che sono piuttosto care dal punto di vista economico (ci sono naturalmente possibilità di borse di studio). Sono dei master post laurea con una prova da superare per l’ingresso che in sostanza consentono di accedere all’esame anche grazie alla pratica in testate interne. Il problema è il dopo: non è mica scontato trovare un’occupazione fissa e retribuita il giusto pur essendo giornalisti professionisti. Collaboratori di testate prestigiose hanno dovuto attendere anni di contratti rinnovati annualmente e tanti sacrifici prima di ottenere la giusta e doverosa assunzione.
La stragrande maggioranza dei giornalisti però arriva “dalla strada” ossia da un percorso che è fatto di gavetta all’interno di testate spesso locali o di settore.
L’assenza dei maestri
Il problema di oggi è che tante redazioni ormai sono parcellizzate e i collaboratori esterni (spesso si comincia così) non possono frequentare la redazione. Per cui è sempre più difficile per un giovane entrare proprio nel meccanismo del flusso di lavoro, essere seguito, corretto, consigliato. La testata vorrebbe un collaboratore già fatto e finito per ovvia comodità e così si crea un circolo vizioso molto difficile da scardinare. I vecchi “maestri” sono sempre più rari.
Eppure, pur avendo parlato di competenze tecniche, i capisaldi del mestiere restano. Quelli sono immutabili, per fortuna, anche se c’è chi sembra averlo dimenticato: le 5W, capire il processo di notiziabilità, la deontologia professionale che ha nella verità, nella continenza e nella pertinenza il proprio faro.
Scopri di più da Emanuela Mortari
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

[…] La seconda puntata è qui […]
"Mi piace""Mi piace"